Col senno di poi, la vicenda che stiamo per ricostruire e raccontare potrebbe apparire anche come un esempio di miopia politica. Invece no: il senno di poi non c’entra affatto, perché a chiunque non avesse inutili quanto discutibili sovrastrutture mentali, è apparso sin da subito che si trattava di un clamoroso errore e che la miopia politica rischiava di sconfinare nel demenziale.
Parliamo del Trans Adriatic Pipeline, ovvero di quell’acronimo – Tap – che per anni è stato al centro di furiose polemiche e proteste e che ha diviso la Puglia tra quanti lo ritenevano inutile e dannoso, in nome di un ambientalismo bieco e privo di logica, e quanti invece si sono sforzati di guardarsi intorno e di comprendere di che cosa esattamente si stesse parlando.
Oggi, a seguito dei tragici eventi bellici derivanti dall’invasione russa dell’Ucraina, il gasdotto Tap è “magicamente” diventato una sorta di ancora di salvezza, al punto che perfino alcuni di quelli che lo avevano contestato e vessato cominciano a riconoscerne la valenza, definendolo un “asset strategico”.
Eppure, essere ambientalisti non è ovviamente una cosa cattiva, anzi; il problema riguarda solo coloro che difendono l’ambiente pronunciando sempre e solo il classico “no” a tutto, in difesa di quel discutibile modo di vedere le cose che gli anglosassoni hanno sintetizzato nell’acronimo “Nimby” (Not in my backyard). Ovvero, letteralmente, “non nel mio cortile”. Soprattutto perché si può essere ambientalisti e costruire un futuro sostenibile e a salvaguardia di tutti anche utilizzando le migliori tecnologie possibili. E si sa che la tecnologia galoppa e inevitabilmente lo fa verso frontiere più sicure.
Ma torniamo al gasdotto Tap. I numeri dicono che a un anno dalla sua entrata in funzione, ovvero a dicembre 2021, ha portato in Italia (e dunque in Europa) 7,5 miliardi di metri cubi di gas azero, facendoci risparmiare il 10% sui prezzi all’ingrosso del gas che di questi tempi sono schizzati alle stelle. Secondo i dati del ministero dello Sviluppo Economico, parliamo di circa il 10 per cento del consumo nazionale annuo di gas naturale, che nel nostro Paese raggiunge poco più di 70 miliardi di metri cubi.
Il Tap potrebbe essere non solo la nostra ancora di salvezza, ma potrebbe consentirci di liberarci una volta per sempre dalla schiavitù del gas russo, che acquistiamo per oltre il 40% di quello che consumiamo in un anno. Solo che serve tempo perché finora il gasdotto ha funzionato ad un terzo della sua massima capacità, visto che è progettato per arrivare a 20 miliardi di metri cubi annui. In sostanza, si può aumentare il flusso, ma seguendo un protocollo che porta ad aumentare e potenziare le centrali di compressione (in Grecia ed in Albania) lungo il percorso, in modo da poter aumentare la pressione e la quantità di gas spinto nella tubatura. A pieno regime si dovrebbe poter arrivare nel 2026.
Il gasdotto è stato a lungo contestato da un movimento contrario guidato da Marco Potì, il sindaco di Melendugno, centro nel Salento che ospita San Foca, la spiaggia di “approdo” della conduttura. In sostanza, l’opera era ritenuta sostanzialmente dannosa, se non addirittura inutile.
Ma che cosa è esattamente la Tap? E’ una infrastruttura lunga 878 km che comincia in Azerbaigian, nei giacimenti di Şah Deniz e dal confine fra la Grecia e la Turchia attraversa i Balcani e a Fier s’immerge nell’Adriatico per approdare a Melendugno, correndo 15 metri sotto il suolo. L’intero “corridoio sud” dal Mar Caspio fino alla Puglia costa 45 miliardi di dollari, contando anche i lavori sui giacimenti in Azerbaigian. I lavori che ci riguardano, affidati ad un consorzio di cui fa parte anche l’italiana Snam, sono costati 4,5 miliardi di euro finanziati con capitali privati e con l’apporto di finanziamenti della Bei (Banca Europea Investimenti). Sono stati terminati nella seconda metà del 2020 e a dicembre l’impianto è entrato in funzione.
Non solo il territorio è stato salvaguardato, ma paradossalmente i lavori e i conseguenti espianti hanno consentito di salvare gli ulivi secolari dalla xylella: tutte le piante sono state riposizionate una da una. Ogni olivo, e sono migliaia, è stato dotato di una targhetta con un codice a barre che dava il punto esatto georefereziato e anche il lato di orientamento al sole. Questi olivi, che per alcuni anni sono stati conservati sotto teli di protezione, sono i soli sfuggiti al contagio, ed oggi risultano essere verdi e rigogliosi in uno scenario di oliveti massacrati dal batterio.
In tutto, sono 1.183 gli olivi riposizionati negli 8 chilometri del tratto Tap fra il mare e l’impianto di Masseria del Capitano. Sulla spiaggia di San Foca nulla è visibile e nulla è stato messo in pericolo. Così come sono stati perfettamente riposizionati i muretti a secco tradizionali e gli attraversamenti delle strade e dei fossi. Insomma, nessuna traccia della temuta e paventata aggressione al territorio.
Il che porta ad una considerazione già chiara da tempo a chi non ha sovrastrutture mentali: la Puglia ha perso in realtà una grande occasione. Pensate che nella prima fase l’azienda aveva messo a disposizione della comunità pugliese e salentina ben 50 milioni di euro da destinare a progetti e investimenti sul territorio. Invece di approfittarne per migliorare (ad esempio) la rete stradale del Salento (e magari trattare al rialzo…), c’è chi ha gridato allo scandalo. Così, tra proteste e carte bollate, di quei soldi ne sono stati spesi meno della metà.
Ma dovremmo mangiarci le mani, e magari chiedere conto a chi si è ottusamente opposto: la Puglia ha, suo malgrado, una posizione geografica strategica nel sistema energetico internazionale. Eppure si è tirata indietro invece di essere protagonista. Una incredibile occasione persa, frutto di miopia politica, di arraffamento di una manciata di voti, all’insegna di quel “pochi, maledetti e subito” che spesso ha fatto la nostra rovina, anche per l’incapacità di “leggere” l’evoluzione del tempo.
Ecco perché abbiamo sfiorato il demenziale e chissà se riusciremo a recuperare il ruolo che la storia ci ha consegnato.