Se quattro milioni di lavoratori
guadagnano meno di 1.000 euro al mese, se si è poveri pur avendo la “fortuna”
di lavorare, c’è qualcosa di sbagliato nel sistema economico che si poggia su
una stortura di questo tipo. Non si tratta più di sensazioni, di denunce di
parte, siamo invece di fronte alla certificazione, da parte dell’Istat nel suo
rapporto annuale, di uno squilibrio inaccettabile e che rischia di minare seriamente
il sistema sociale e non solo economico del nostro Paese. L’istituto centrale
di statistica aggiunge che se non si provvederà ad aumentare gli stipendi,
questi scenderanno sotto i livelli del 2009.
Se questa è la situazione di una
fetta consistente di lavoratori, immaginate cosa è successo per l’indice di
povertà: quasi 5,6 milioni di persone vivono in povertà assoluta, si tratta del
9,4% degli italiani, il triplo rispetto ai dati del 2005. Sono 2,6 milioni le
persone costrette a chiedere aiuto per mangiare. Se consideriamo che i dati si
riferiscono al 2021 e che in questo 2022 la situazione è peggiorata, a causa
della crisi determinata dalla pandemia prima e dalla guerra in Ucraina poi, che
hanno determinato aumenti dei prodotti energetici e, a catena, di tutti gli
altri, innescando una spirale inflazionistica difficilmente arrestabile, il
quadro generale è a tinte più che fosche.
Ovviamente al Sud, e quindi anche
in Puglia, la situazione è più deteriorata che nel resto d’Italia, soprattutto
per donne e giovani. Basti citare un paio di casi per dare l’idea.
I lavoratori a bassa retribuzione oraria (quelli
con meno di 1.000 euro al mese, che corrispondono a meno di 8,41 euro lordi) sono
più spesso giovani fino a 34 anni, donne, stranieri (soprattutto extra-Ue), con
basso titolo di studio e residenti nel Sud. Sono più spesso occupati nel
settore degli altri servizi: organizzazioni associative, attività di servizi
per la persona, riparazione di beni per uso personale e per la casa, quelli di
supporto alle imprese e di intrattenimento, alloggio e ristorazione, istruzione
privata. Vi dice qualcosa? Non sembra una fotografia abbastanza fedele
della nostra Puglia?
Un altro esempio? I giovani che non riescono ad andarsene dalla famiglia di origine. Nel 2021 erano poco più di 7 milioni i giovani di 18-34 anni a vivere in casa con i genitori (67,6%), rispetto al 2019, ossia prima della pandemia, la permanenza è cresciuta di 3,3 punti percentuali. Nel Mezzogiorno quelli che vivono con i genitori sono il 72,8% contro il 63,7% del Nord e il 67% del Centro). Non solo, il 35% dei giovani meridionali che vivono in famiglia sono disoccupati, una percentuale doppia rispetto al Nord (17%). Mentre quelli che lavorano sono il 29% nel Sud contro il 46% del Nord.
Esiste poi una grande questione di carattere generale, che proviene dalle politiche sulla flessibilità del mercato del lavoro avviate una trentina di anni fa. Da tempo è in atto una decisa diminuzione del cosiddetto lavoro standard, cioè quello a tempo indeterminato e degli autonomi con dipendenti, entrambi con orario a tempo pieno. Nel 2021 queste modalità di lavoro riguardavano il 59,5% del totale degli occupati.
Invece, quasi 5 milioni di occupati (il 21,7% del totale) sono non-standard, cioè a tempo determinato, collaboratori o in part-time involontario. Sono lavoratori non standard il 39,7% degli occupati under 35, il 34,3% dei lavoratori stranieri, il 28,4% delle lavoratrici, il 24,9% degli occupati con licenza media e il 28,1% dei lavoratori residenti nel Mezzogiorno. Una marcata concentrazione di lavoratori non-standard si rileva nel settore degli alloggi e ristorazione e in agricoltura (quattro su dieci), nel settore dei servizi alle famiglie (48,5%), in quello dei servizi collettivi e alle persone (31,9%) e in quello dell’istruzione (28,4%).
Tenga ben presente questi ultimi dati chi blatera, puntando su uno sviluppo fatto soprattutto di turismo per la nostra regione.