Tra i 47 Stati membri del
Consiglio d’Europa solo 10, tra i quali l’Italia, hanno una situazione di
sovraffollamento delle carceri. In questa classifica la Puglia si collocherebbe
al primo posto “per distacco” rispetto alla Romania (119,3%) con un indice del
134,5%.
Uno dei dati che emerge in modo
prepotente dal XVIII rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in
Italia è il sovraffollamento che va aldilà del dato percentuale che tiene conto
esclusivamente degli spazi fisici disponibili nelle strutture carcerarie. La
presenza di servizi e di personale in numero adeguato alla popolazione
carceraria è un dato altrettanto importante e, da questo punto di vista gli
istituti italiani sono doppiamente affollati.
Abbiamo già affrontato l’eccessivo
sbilanciamento presente in Italia tra il personale di polizia penitenziaria e
quello dedicato ad altre mansioni e, in particolare, a quelle rieducative
concludendo che questa sproporzione non è dovuta a un eccesso di agenti quanto
a una drammatica carenza di educatori. Raccogliendo un invito della dottoressa
Pirè, direttrice del carcere barese, abbiamo voluto approfondire le differenze
nella composizione del personale con alcuni Paesi più “virtuosi”.
Dal rapporto Space I 2021 del
Consiglio d’Europa scopriamo che in Irlanda, dove c’è 1 agente ogni 1,3
detenuti (più dell’Italia), gli addetti alle attività di valutazione, educative
o di formazione professionale sono uno ogni 10,5 detenuti, costituendo il 10,3%
del personale totale, ben cinque volte la percentuale italiana (2,1).
Casualmente proprio il rapporto auspicato da Pirè che a fronte di soli 2
educatori aveva indicato in 10 unità il minimo necessario per un carcere come
quello barese.
La situazione, del resto, non è
molto diversa in Olanda che ha un addetto all’area trattamentale ogni nove
detenuti (8,7% del personale) o in Svezia con uno ogni 12 e una percentuale del
7,8% rispetto al totale.
Alla carenza di personale in
Italia si somma l’inadeguatezza di molte strutture carcerarie. Non fa eccezione
quella di Bari come stigmatizzato nel corso dell’intervista dalla stessa
direttrice che ricorda come la sua costruzione risalga a oltre un secolo
rendendo di fatto la struttura non conforme alle attuali normative.
Il rapporto Antigone definisce l’istituto
barese “assolutamente inidoneo ad ospitare le 440 persone presenti” con un
indice di sovraffollamento del 153,1%, rilevando, tra le altre criticità,
problemi strutturali importanti che richiederebbero una urgente e costosa
manutenzione, l’assenza di palestra e impianto sportivo, problematiche
riguardanti la biblioteca e la mancanza di spazi per le lavorazioni.
I vertici del carcere barese non
negano in alcun modo la difficile situazione lamentando però una cronica
inerzia pluridecennale nell’affrontare questi aspetti. Secondo la direttrice,
infatti, chi ha la responsabilità di fare delle scelte oggi si trova sulle
spalle un carico di situazioni mai affrontate in profondità. Uno dei motivi è
politico visto che difficilmente, secondo Pirè, l’opinione pubblica è in grado
di comprendere appieno alcune questioni come ad esempio i vantaggi per i
cittadini nel rafforzare i presidi sanitari interni del carcere (uno dei pochi
centri clinici in Italia). Incrementare le prestazioni sanitarie all’interno
significherebbe infatti evitare di scortare detenuti in strutture esterne con
il conseguente onere per lo Stato, rischio di evasione, carico in più per il
personale e sul sistema sanitario.
L’unico dato contestato nei
confronti dei volontari di Antigone, ritenuti peraltro preziosi per il loro
lavoro che “tiene accesi i riflettori sulla realtà carceraria”, è quello sulla
biblioteca. La struttura edilizia del carcere barese non prevede la possibilità
di una biblioteca centrale, ma direttrice e responsabile dell’area
trattamentale rivendicano l’enorme lavoro fatto per realizzarne una in ogni
sezione, riuscendo, con tanta fatica, a farne funzionare ben cinque.
La dottoressa Francesca De Musso,
comandante della polizia penitenziaria, pur ammettendo che un “carcere bello”
non risolverebbe il problema, sottolinea come sia il punto da cui partire per
garantire un ambiente dignitoso che sappia rispettare il mandato dello Stato.
Difficile, secondo la comandante, sperare di restituire alla società una
persona migliore di quella che era entrata facendola vivere in uno spazio non
adeguato e certamente non in linea con il principio costituzionale
dell’umanizzazione della pena.
“Noi cerchiamo di fare del nostro
meglio - conclude De Musso - per garantire la manutenzione interna, però i
limiti strutturali ci sono, sono sotto gli occhi di tutti ed è fondamentale
richiamare l’attenzione sul problema”.
Tra questi limiti strutturali c’è
sicuramente il fatto che, a fronte di una media in Italia di 1,7 detenuti per
ogni cella, nell’istituto barese ci sono celle (con un solo bagno) che ospitano
fino a sei detenuti. Situazione per la quale la dottoressa Pirè ammette senza
remore “…stare 24 ore su 24 nella stessa stanza con persone che non ti sei
scelto, che magari non dormono, che vogliono tenere la televisione accesa
quando tu la vuoi tenere spenta o viceversa, per come sono di carattere al
terzo giorno mi sarei già ammazzata”.
Difficoltà di convivenza che,
come ci spiega De Musso, derivano anche da una tipologia di utenza complessa, fatta
da persone con problemi di salute, problemi psichiatrici e con detenuti
appartenenti a clan contrapposti. “Con tutte queste difficoltà – sostiene - noi
lavoriamo con l’idea chiara che la sicurezza si fa mediante il trattamento. Il
trattamento è sicurezza. L’unico modo possibile per garantire l’adempimento del
nostro mandato costituzionale è quello di lavorare insieme (con gli educatori –
ndr) per il fine che lo Stato ci assegna di possibile reinserimento e
sicurezza”.
Ecco perché è fondamentale avere,
oltre ad ambienti adeguati, operatori sufficienti per evitare il
sovraffollamento che, come sottolinea la comandante, con un eccesso di presenze
comporta un maggiore rischio di conflittualità aumentando la probabilità di contrasti
all’interno delle camere. Ma, soprattutto, porta a una riduzione della capacità
di risposta del sistema alle istanze dei detenuti, con una difficoltà da parte dell’area
trattamentale, a causa dell’esiguo numero degli operatori, a dare risposte
adeguate, mettendo quindi a rischio i diritti sanciti dalla Costituzione e al
tempo stesso la garanzia di adeguati livelli di sicurezza.
Intervenire significa,
ovviamente, fare investimenti decisi sulla base di un programma centrale che
tiene conto di tutte le criticità presenti sul territorio nazionale che, come
abbiamo visto, non sono poche. Poco, invece, si può incidere a livello locale,
anche se la dottoressa Pirè si paragona a San Giovanni nel deserto avendo
portato chiunque, dal vescovo al sindaco, dal prefetto al Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria, a conoscenza della precaria situazione della casa circondariale
barese.
“Certo non significa che qualcuno
con la bacchetta magica debba stanziare miliardi di euro perché tanto sappiamo
che non è possibile” afferma la direttrice che sottolinea però come non si
possa prendere sempre una tessera del puzzle senza mai affrontare il disegno d’insieme.
“Solo prendendo atto della complessità della situazione carceraria – conclude -
si può cominciare a ipotizzare soluzioni che un pezzetto alla volta possano
mettere rimedio a qualcosa”.