La domanda è una sola e non è più ineludibile: è il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, ad aver distrutto il PD in Puglia?
Oggi come oggi, sono in molti a pensarlo. Il che sta dando fastidio allo stesso Emiliano, che sembra mostrare segni di latente nervosismo sotto forma di minacce politiche più o meno velate, dal ritiro delle deleghe all’azzeramento delle cariche di sottogoverno (ma c’è chi sostiene che sia un bluff e che ne arriveranno altre a breve…).
Dalle macerie delle elezioni politiche del 25 settembre emerge un malcontento sempre più diffuso; un malcontento che non è più una protesta di pochi: ora a borbottare, insistentemente ed in qualche caso anche pesantemente, comincia ad essere la base.
Chi difende Emiliano (e con lui il segretario regionale del Pd pugliese, Marco Lacarra) sostiene che in fondo a casa nostra, alle politiche, il centrosinistra non è mai andato bene, al contrario di quanto accede nelle consultazioni locali. Tanto che nelle grandi città, Bari su tutte, e in Regione, se non si vince proprio facile, ci siamo molto vicini.
Vero è che votare ad elezioni locali è certamente diverso che votare per il Parlamento, dove non ci sono preferenze e tutto sembra in qualche modo “imposto”. Non ci sono parenti, amici o semplici conoscenti da “aiutare” e dunque si può esprimere un voto realmente di opinione. O il più possibile vicino ad un’opinione.
Poi c’è chi perde e si aggrappa agli specchi. Emiliano e Lacarra hanno provato il bluff parlando di un 3,1% di voti in più rispetto al 2018, ma si sono guardati bene dal sottolineare che rispetto alle scorse politiche il Pd ha perso qualcosa come 5.500 voti circa. Effetto dell’astensione, in Puglia superiore ai 12 punti percentuale. Per cui poco importa se la percentuale migliore in realtà equivale ai voti che sono diminuiti, se gli avversari politici hanno migliorato di oltre 20 punti (il caso di Fratelli d’Italia, passato dal 3,9% del 2018 al 26% del 2022), se il centrosinistra ha complessivamente fatto meglio ma il solo a perdere terreno è stato proprio il Pd.
Invece, importa eccome. E stavolta pare lo abbia capito anche la base del partito, perché questa è una sconfitta che viene da molto lontano e ha una matrice ben precisa. Arriva da chi ha imposto le scelte dei candidati (e non è Roma) e dal fatto che nel Partito Democratico si è smesso di fare politica alla fonte da un bel pezzo. Da quando, inebriati dalle vittorie alle comunali più importanti e alla Regione Puglia, si è pensato che il metodo Emiliano con le costanti “campagne acquisti” dallo schieramento avverso, la sistematica assegnazione di incarichi e una copertura mediatica certamente ben organizzata ma lontana dalla realtà, potessero bastare. E poi, alle regionali, ci sono le liste civiche (che spuntano sistematicamente come funghi per rastrellare voti) che muoiono due ore dopo la chiusura delle urne. Anche questo è un segnale che mina alla fonte i circoli e l’attività di base, oltre che il partito. Così come la barzelletta del “modello pugliese”. Che forse non c’è mai stato neanche ai tempi di Nichi Vendola (dopo pochi anni non se ne vede traccia), figuriamoci ora.
E intanto, il presidente Emiliano ancora una volta, all’indomani delle elezioni politiche, ha provato a giocare con i numeri per giustificare quello che la scorsa settimana abbiamo definito “capabbasce”, utilizzando il nostro non imitabile dialetto. Ha tirato in ballo il Movimento 5stelle, suo alleato in Puglia, ma fumo negli occhi a livello nazionale, per spiegare che “se fosse stato seguito il nostro modello, si sarebbe giocata un’altra partita”.
Forse, ma anche il dato dei 5stelle va analizzato, Perché se è vero che da noi è stato il primo partito (con il 27,9%) è anche vero che rispetto al 2018 ha subito un vero e proprio collasso di voti (era al 44,9%). E non è casuale, soprattutto se i voti in questione alla fine sono parrivati non da chi si riconosceva in un programma politico, ma piuttosto mirava alla tutela del proprio orticello: il reddito di cittadinanza. Senza contare che la politica non si fa solo sommando i voti: contano le scelte, le proposte, l’essere o non essere al governo o all’opposizione.
Ma che la debacle del Pd (prima ancora che del centrosinistra) fosse nell’aria era piuttosto evidente già dallo scorso mese di agosto. Basta andare a ritroso e recuperare alcune critiche arrivate in tempi non sospetti per comprendere sia il malcontento sia la lungimiranza di chi ancora intende Partito Democratico e coalizione di centrosinistra come un luogo vicino alla gente, di confronto e di proposte politiche piuttosto che un luogo in cui si assegnano posti in lista, incarichi e s’impongono scelte.
Qualche esempio? È presto detto. Il primo ad uscire allo scoperto è stato il consigliere regionale Pd Fabiano Amati, lo scorso 6 agosto: “Le liste del mio partito risultano invotabili – disse – l’idea secondo cui i simboli esistono e vanno sostenuti a prescindere dalle persone che li rappresentano è idolatria o paganesimo applicato alla politica, soprattutto se i candidati arriveranno in Parlamento non attraverso le preferenze dei cittadini, ma approfittando di una legge elettorale indecente, fondata sulle nomine gradite ai gruppi di potere organizzati”.
A ferragosto allo scoperto anche il senatore salentino Dario Stefano, che prima critica la coalizione nazionale con Fratoianni e Bonelli (“che durante le giunte di Vendola in Puglia fu nostro avversario”), poi rivolge un pensiero pungente al presidente Emiliano: “Il suo civismo opaco occupa posti e rende irriconoscibile l’identità del Pd”.
A monte, anche la levata di scudi delle donne del Pd, che avevano capito di essere state messe da parte, perché nelle liste non c'era nessuna capolista, né candidata in posizione spendibile. Conseguente che non vi sia stata alcuna donna eletta e che la coordinatrice della Conferenza regionale donne Pd, Antonella Vincenti, si sia poi dimessa.
A gamba tesa è entrato poi l’avvocato Michele Laforgia, de “La Giusta causa”, che sin dalla vigilia aveva duramente (e profeticamente) criticato le scelte fatte: “Il Pd in questa occasione ha mostrato il peggio di sé, prima, durante e dopo le elezioni – ha spiegato al dorso locale di “Repubblica” - . Dalla formazione delle liste alla campagna elettorale sino al giorno dopo, quando nessuno ha avuto il coraggio di assumersi la responsabilità delle scelte sbagliate. Sembra che le liste siano nate per incanto. Eppure nei listini non erano candidati Biancaneve e Cenerentola, ma segretari regionali, parlamentari uscenti e capi di gabinetto”. Insomma, le scelte che Emiliano ha imposto a Roma. Peraltro facendo eleggere i suoi scudieri. Peccato che il Pd sia altro. Ma forse non è più vero neache questo, se l’attività dei circoli è ridotta al lumicino e in qualche caso addirittura azzerata, se non ci si co fronta più, se nessuno chiede all’iscritto che cose ne pensa.