Periodicamente l’ex Ilva di Taranto deflagra: costituisce, insieme ad altri nodi irrisolti del nostro Paese, la cartina di tornasole del perché siamo tuttora e irrimediabilmente una Italietta. Cioè una Nazione che non decolla, che anzi regredisce, perfino ad onta delle modestissime performance positive del PIL che ogni tanto scopriamo meravigliandoci noi stessi per primi.
L’ex Ilva è sotto questa luce in buona compagnia: con l’ex Alitalia ad esempio e con il Monte dei Paschi di Siena.
In modo particolare ex Ilva ed ex Alitalia hanno oggi in comune l’ostinazione della cosiddetta “politica” a sostenere strutture decotte, fuori mercato. Curiosamente, in entrambi i casi si accampano ragioni “nobili” per mantenerle in vita, ma molto discutibili. Per l’ex Alitalia si argomenta non essere accettabile che un Paese come l’Italia debba essere privato di una flotta aerea nazionale. Per l’ex Ilva si accampa una fantomatica valenza strategica della siderurgia: per un comparto produttivo che ormai ha già perso consistenti quote di mercato, lo “storytelling” è, per la precisione, che la produzione di acciaio non solo sia indispensabile per lo sviluppo manifatturiero ma anche che essa debba essere autoctona, quindi che debba restare nei confini della Penisola!
In realtà si ammanta di ragioni per così dire “nobili” una situazione che per forza di cose non può essere lasciata al gioco del mercato, per il fatto che l’ex Ilva si trascina dietro una massa di lavoratori (diretti e dell’indotto) di tale entità - migliaia e migliaia - che, se cancellata con risoluti processi di riconversione, provocherebbe un vero e proprio terremoto sociale e politico.
L’Italietta le ha pensate tutte: da ultimo un complicato e contorto assetto proprietario a mezzo fra pubblico e privato che da un lato ha lasciato mano libera al privato (Arcelor Mittal), dall’altro ha accollato al pubblico (Invitalia) buona parte delle criticità. Sullo sfondo, si trascina un complesso aziendale che continua a produrre veleno nel territorio circostante e che sempre più continuerà a farlo ad onta e scherno dei reboanti bla-bla-bla dei governi di turno, sia centrali sia regionale.
A fronte di tutto ciò di certo più felice finisce per essere la sorte toccata allo stabilimento campano coevo: l’Ilva di Bagnòli, da tempo rasa al suolo determinando sì una situazione di temporanea desertificazione dell’area ma almeno azzerando i fattori mortiferi e le criticità economiche. Quest’ammissione trapela solo timidamente perché ritenuta – erroneamente - una lancia spezzata a favore della decrescita. E tuttavia la cruda realtà è che Taranto ha oggi primati non invidiabili di malattie professionali e performance serie di infortuni sul lavoro e di diffusione dei fattori cancerogeni.
Ma il sogno di un destino “bagnoliano” per l’ex Ilva di Taranto non è affatto peregrino: anzi sarebbe un segno di neo-umanesimo applicato all’economia.