Il rischio è sottovalutare e quindi scivolare sulla classica
buccia di banana. L’emergenza idrica, drammatica in questa estate 2022,
presenta in apparenza un grande paradosso che potrebbe depistare un po’ tutti e
lasciar pensare che in fondo la questione ci riguarda marginalmente. Non è
così, perché se è vero che il nord del Paese è a secco e che i fiumi non sono
mai stati nella situazione attuale (almeno negli ultimi vent’anni) è anche vero
che comunque i danni causati dalla crisi idrica si estendono a macchia d’olio
su settori trainanti per l’economia: agricoltura innanzitutto, ma anche
industria, turismo e servizi. Discorso che vale pure per il Mezzogiorno
d’Italia. Ovvero la parte che “storicamente†rappresenta una sorta di colabrodo
anche in virtù del fatto che la conformazione geografica impone agli acquedotti
di trasportare l’acqua per così tanti chilometri che secondo alcuni le perdite
sono quasi fisiologiche.
Non è del tutto vero, ovviamente. Parliamo infatti di situazioni di
crisi che in Puglia si ripetono ogni anno e che stavolta non è meno
grave solo perché c’è chi sta peggio. Peraltro, la questione non riguarda solo
gli sprechi ma anche la capacità di accumulare e gestire l’acqua piovana. E se
in questa estate in Puglia è scattata “solo†la fase di preallarme, è grazie alle
piogge invernali, visto che negli invasi la situazione è simile o in alcuni
casi addirittura migliore dell’estate scorsa. Ma non abbiamo alcun motivo per
gioire. I timori riguardano soprattutto il settore agricolo: negli
ultimi 20 anni la siccità ha provocato danni all’agricoltura italiana per oltre
15 miliardi di euro, con il 50% dei danni concentrato in sole quattro regioni:
Puglia, Emilia Romagna, Sicilia e Sardegna. E per Coldiretti in Puglia il conto
pagato dall’agricoltura per la siccità sarebbe pari ad oltre 70 milioni di euro
l’anno. E questo 2022 non sembra essere diverso.
Tra l’altro, è appena il caso di ricordare che nell’ultimo rapporto
Bes 2021 dell’Istat, la
Puglia è tra le regioni che più ha sofferto per le interruzioni idriche, dopo
la Campania e prima della Sicilia. E se Milano è la città italiana con il
maggior volume idrico erogato (oltre 300 litri quotidiani per abitante), tra
quelli che registrato quantitativi
inferiori ai 150 litri per abitante al giorno, due città sono pugliesi e sono entrambe nella Bat:
Andria e Barletta, che sono in compagnia di Arezzo, Agrigento e
Caltanissetta.
E comunque, il motivo per il quale è necessario rimboccarsi
le maniche lo spiegano i numeri. Secondo il Rapporto dell’ISPRA (Istituto
superiore per la protezione e la ricerca ambientale) e del Sistema
Nazionale per la Protezione dell’ambiente, siamo la regione d’Italia dove piove meno con 641,5
millimetri annui medi. Questo primato negativo incide anche sulla disponibilitÃ
annua media di risorsa pro capite con soli 1000 metri cubi: in sostanza, meno
della metà della disponibilità annua pro capite media nazionale, che è stimata
in 2330 metri cubi.
Secondo l'ultimo rapporto Svimez-Utilitalia lo spreco dell’acqua nelle
regioni del Sud supera il 47 per cento con picchi del 60 in alcune zone
siciliane e campane. E non finisce qui, perché da un’analisi della Coldiretti, in
occasione della giornata mondiale dell’Onu per la lotta a desertificazione e
siccità del 17 giugno, sulla base dei dati Ispra, emerge che in Puglia le aree a
rischio desertificazione rappresentano il 57% della superficie utilizzabile.
Insomma, non è più tempo di farci cogliere impreparati.
La situazione. Attualmente mancano tra i 70 e gli 80 milioni di metri cubi rispetto alla
capacità complessiva. Tuttavia, lo scorso 21 giugno (primo giorno d’estate) la
situazione era leggermente migliore rispetto allo stesso giorno del 2021: ad
esempio, nella diga di Occhito sul Fortore, il principale invaso pugliese, ci
sono quasi 184 milioni di metri cubi di acqua; il Marana Capacciotti ha a
disposizione 38,12 milioni di mc, contro i 37,87 del 2021.
Nel frattempo i pozzi freatici non hanno più acqua, mentre dai pozzi
artesiani c’è il rischio di emungimento di acqua salmastra, uno scenario che
impone – spiega Coldiretti Puglia - di sfruttare al meglio tutte le risorse
messe a disposizione della programmazione degli interventi idrici e di
riassetto del territorio nei prossimi anni.
Danni. Nelle campagne pugliesi
bruciano frutta e verdura con una riduzione della produzione di oltre il 20%
già a giugno. Meloni, angurie, fragole tardive, melanzane e piante di pomodori sono
in gran parte ustionati dai raggi del sole e la mancanza di acqua sta mandando
in stress idrico i vigneti e gli oliveti dove mancano le olive.
C’è poi il problema degli
allevamenti. Nelle stalle gli animali soffrono il caldo e le mucche per lo
stress delle alte temperature stanno producendo fino al 30% circa di latte in
meno rispetto ai periodi normali, mentre il calo delle rese ha messo in crisi
le coltivazioni
come il grano e gli altri cereali, ma anche quella dei foraggi per
l’alimentazione degli animali e di ortaggi e frutta che hanno bisogno di acqua
per crescere. In prospettiva, si prevede un calo sensibile della produzione di
olive pari al 40%.
In più ci sono gli incendi favoriti dalle alte temperature e
dall’assenza di precipitazioni che ha inaridito i terreni nei boschi più
esposti al divampare delle fiamme, ma anche in Salento, dove l’abbandono dei
campi a causa della Xylella che ha fatto seccare gli ulivi ha reso drammatico
il fenomeno dei roghi.
A metà strada. Si sarebbe potuto fare di più e
di meglio. Eppure ci sono alcune opere assurdamente incompiute che in questa
situazione fanno rabbia: la diga del Pappadai, opera idraulica in
provincia di Taranto mai utilizzata, e di fatto abbandonata, che sarebbe utile
a convogliare le acque del Sinni per 20 miliardi di litri da utilizzare per uso
potabile e irriguo. Una volta ultimata, quest’opera andrebbe a servire l’Alto
Salento, che ancora oggi è irrigato esclusivamente con pozzi e autobotti. In
sostanza, bisognerebbe puntare sulla realizzazione di un piano per i bacini di
accumulo per assicurarsi stabilmente in futuro le riserve idriche necessarie.
Ma anche qui c’è una palla al piede: andrebbero velocizzate le procedure
burocratiche perché in Puglia la durata degli appalti è di 877 giorni contro la
media nazionale di 663.
C’è inoltre un problema politico-amministrativo: gli
esperti e le associazioni di categoria suggeriscono la revisione degli accordi
con la Regione Basilicata, circa il ristoro del danno ambientale, e con la
Regione Molise per la realizzazione di una condotta – cavallo di battaglia di Coldiretti
Puglia – di 10 chilometri per drenare acqua dall’invaso del Liscione sul
Biferno fino all’invaso di Occhito sul Fortore.
Futuro. Quello che serve è una lungimirante politica irrigua e di bonifica
integrale che finora è andata persa. Le possibilità economiche non mancano e fanno
riferimento ancora una volta al PNRR. Infatti, lo scorso novembre è stato
pubblicato un bando che assegna 313 milioni di fondi per intervenire sulla
carente dotazione infrastrutturale del Mezzogiorno. Agli enti d’ambito
delle cinque regioni coinvolte sono stati assegnati 45 giorni di tempo per
presentare i progetti anche facendo ricorso “all’impiego delle migliori
tecnologie digitali per il monitoraggio delle reti e il miglioramento della
resilienzaâ€. Ma i pochi progetti presentati non sono stati ritenuti idonei dal
ministero delle Infrastrutture che li ha rispediti indietro perché in molti
casi sono privi dei requisiti essenziali.
Ovviamente, tutto ha una spiegazione: il divario infrastrutturale tra il
Sud ed il resto d’Italia ed il Sud e l’Europa è determinato dagli investimenti.
In media nei Paesi europei è di 90 euro per abitante; in Italia è invece di circa
39 euro (dati 2017), che diventano 26 nel Mezzogiorno. Insomma, se saremo
bravi, non potremo che migliorare. Anche se per colmare il divario
infrastrutturale dal 2000 a oggi, il Sud dovrebbe reinvestire qualcosa come
quattro miliardi di euro.
La beffa è che ad onta di quanto sembrerebbe, l’Italia è un
paese piovoso che per carenze infrastrutturali trattiene solo l’11% dell’acqua.
Gli esperti sostengono che con scelte mirate ed un piano che abbia incidenza
nel tempo, si potrebbe arrivare ad almeno il 50 %. Ma sa da sé che serva un
cambio di passo nell’attività di prevenzione, che peraltro avrebbe una ricaduta
importante sull’ambiente e sull’occupazione. L’alternativa è rincorrere
l’emergenza con interventi che spesso non risultano essere strutturali. Il che
andrebbe assolutamente evitato ma è purtroppo quello che avviene costantemente.